Storie e Leggende Catanesi
La storia di Catania
Tucle e i Calcidesi, mossisi da Nasso cinque anni dopo la fondazione di Siracusa e cacciati i siculi con una guerra, fondano Leontini e quindi Catania: gli stessi catanesi però si dettero come fondatore Evarco.
Sappiamo così che Katane venne fondata da coloni calcidesi, poco dopo il 729 a.C., durante la fase più antica della colonizzazione greca della Sicilia. In precedenza il territorio era abitato dai Siculi, immigrati dall’Italia centro-meridionale durante l’età del bronzo, ricacciando verso occidente le popolazioni Sicane che vi si erano stabilite in precedenza. Katane e le altre civiltà calcidesi, erette intorno alla pianura dove scorre il Simeto, vissero in armonia sia fra di loro che con le popolazioni sicule che occupavano i territori limitrofi, fino all’avvento al potere di Ierone I tiranno di Siracusa che, nel 476, fece trasferire in maniere coercitiva, le popolazioni di Naxos e Katane e Leontini, rifondando Katane con coloni del Peloponneso, dandogli il nome di Etna, affidando il governo della città a suo figlio Diomene. Questo tragico avvenimento è narrato da Pindaro nella “Prima Pitica”, come l’elemento centrale del poema ed è ripreso anche da Eschilo nella tragedia “Etnee”, purtroppo perduta (c. 470 a.C.). Soltanto nel 461, in seguito ad un attacco siculo - siracusano contro Etna, fu costretta la popolazione di quest’ ultima a rifugiarsi in territorio siculo ad Inessa che venne ribattezzata Etna. Katane, ripopolata con gli abitanti scacciati a suo tempo da Ierone e con i nuovi coloni siracusani e siculi, riprese il suo nome originario. Di grande rilievo, anche se velata la leggenda, emerge la figura del legislatore catanese Coronda, di cui non è accertato il periodo in cui visse (probabilmente, basandoci su di una congettura, tra la fine del settimo o l’inizio del sesto secolo): è l’ autore di un codice di leggi scritte che venne poi adottato, da varie città greco-sicule di origine calcidese. Katane nel 263 a.C. viene conquistata dai Romani nel corso della seconda guerra punica e ribattezzata Catina. Dopo il 210 a.C., al termine della conquista romana di tutta l’isola, città e campagne si trovano in condizione di grandi rovine e devastazioni, necessitando quindi di una alacre e imponente ricostruzione. La “Pax romana” sortì immediatamente questo effetto e “Catina”, divenne, sia in età repubblicana che in quella imperiale, una città ricca e prosperosa; ne sono testimonianza sia le fonti che il considerevole numero di edifici di questo periodo riportati alla luce, benché, come ci ricorda lo storico cristiano P. Orosio, sia stata distrutta nel 123 da una tremenda eruzione.
Il clima della Sicilia
Il racconto mitologico afferma che un giorno di primavera il Dio Plutone, re del mondo sotterraneo e fratello di Giove, sbucò in Sicilia dal lago di Pergusa; e rimase colpito dalla visione che apparve ai suoi occhi: in mezzo ai prati, la giovane Proserpina, assieme alle ninfe che la accompagnavano, raccoglieva fiori variopinti e profumati. Vederla, innamorarsene e rapirla, fu tutt’uno per Plutone; e se la portò giù agli inferi. Il ratto fu cosi subitaneo, che nessuno seppe dare indicazioni alla madre Cerere, che per tre giorni e tre notti ricercò Proserpina, per tutta la terra, facendosi luce di notte con un pino da lei divelto e acceso nel cratere dell’Etna. Alla fine dei tre giorni d’inutili ricerche, Cerere si adirò e cominciò a far soffrire gli uomini, provocando siccità, carestie e pestilenze. Gli uomini allora si rivolsero a Giove, supplicandolo di trovare una soluzione; e Giove risolse il problema, decidendo che Proserpina stesse per otto mesi, da gennaio ad agosto, sulla terra assieme alla madre; e per quattro mesi da settembre a dicembre, sotto terra col marito Plutone, determinando così l’alternanza di due sole stagioni nel clima della Sicilia.
Pracchio (Catania 1708)
Nel 1708, quindici anni dopo il terribile terremoto che aveva raso al suolo Catania, un’epidemia dimezzò l’ancora esigua popolazione catanese. A quei tempi la città era piccola, angusta e terribilmente sporca. Il quartiere del Carmine, sorto dopo il 1693 fuori la Porta di Aci, era detto pracchio appunto per la sua sporcizia.La situazione igienico-sanitaria sfuggiva di mano al Senato. Non si riusciva a porre un serio freno al dilagante sudiciume che a sua volta era causa di malattie, di epidemie. Il grave stato di cose indusse allora il Senato a fare reformare l’antiche o aumentare le norme che regolavano l’officio del Mastro di Mondezza, il quale, a sua volta, dipendeva direttamente da un Patrizio incaricato di controllare la situazione igienica della città. Il Mastro di mondezza aveva il diritto di promulgare bandi o comandamenti secondo le occorrenze. Le norme erano numerose e abbastanza esplicite. Ai cittadini fra l’altro era proibito di "gettare sterco e mondezze per le pubbliche strade, ma appoggiarle alle proprie mura al fine di poterle trasportare fra il giro di giorni 15 nella nuova strada del Fortino; o pure nel fosso grande vicino al bastione antico di S.Barbara vicino la casa dé Teatini o altrove". Poi le regole di igiene e di polizia urbana divennero più drastiche e si estesero in altri settori: fu vietato, "per l’incomodo e detrimento che apportano al pubblico della comune salute, la retina delle mule per le vie della città, nonché il vagare di porci, oppure far bagnare gli animali -cavalli o muli- in riva al mare". Il Patrizio, in sostanza, doveva vigilare affinché le bestie da carico non girassero per la città, ma si limitassero a percorrere le strade più corte per attravers fatto obbligo di "andar correndo per la città". Un mestiere difficile quello della bestia, nel 700 catan arla. A cavalli e muli era, infatti, vietato "passare di giorno per il Corso S.Filippo, piano di S.Agata, Quattro Cantonere".
I giganti Ursini e il paladino Uzeda (Catania 1239-1250)
Il più insigne monumento medioevale di Catania è il poderoso castello Ursino, fatto costruire dall’imperatore Federico II di Svevia dal 1239 al 1250, nello stesso luogo dove sorgeva un castello che dominava il porto e il golfo di Catania, che perciò latinamente si denominava castrum sinus, cioè castello del golfo, da cui per corruzione si ebbe castello Ursino. Per spiegare la denominazione di Ursino, la fantasia popolare ha immaginato l’esistenza di giganti saraceni, chiamati appunto, e non si sa perché, Ursini, che il conte normanno Ruggero avrebbe sconfitto nell’XI secolo, impadronendosi del loro castello sulla spiaggia di Catania. Naturalmente, questa leggenda non ha alcun fondamento storico, ed è evidente la sua analogia con la leggenda normanna di Messina, in cui il conte Ruggero sconfisse i due giganteschi castellani saraceni Grifone e Mata, ne occupa il castello e li costringe ad assistere al trionfo cristiano; come non ha alcuna consistenza storica l’altra leggenda relativa ai giganti Ursini, secondo la quale essi sarebbero stati sconfitti e uccisi dal paladino catanese Uzeta (Questo paladino dalla nera armatura , sebbene sia stato eternato nel bronzo di uno degli artistici candelabri di Piazza Università, è frutto della fantasia di un giornalista catanese dei primi del novecento, Giuseppe Malfa, che lo immaginò figlio di povera gente, divenuto cavaliere per il suo valore: e come in tutte le favole belle, egli uccide i suoi nemici, tra cui i giganti Ursini, e finisce per sposare la figlia del re.
Un miracolo debole
Tra le pieghe della leggenda sovente dovrebbe trovarsi una traccia storica più o meno veritiera, ma la leggenda, spesso, tralascia di narrare la veridicità dei fatti, giacché l’evoluzione della narrazione si arricchisce di fatti d’altri periodi, dilatandola così all’infinito.
Non è il caso dell’autore che di leggenda narra poco e nulla, ma di evento storico e di analisi ragionata e, tiene sempre presente la fede dei credenti che indubbiamente resta, di fatto, l’unica verità tangibile. In tutti i casi, il Miracolo di San Michele Arcangelo a Caltanissetta è illustrato come momento storico con tutte le contraddizioni del momento e risulta essere un’invitante momento di riflessione.
Billonia (Catania XIX – XX secolo)
Personaggio popolare e pittoresco della Catania a cavallo tra due secoli, il XIX e il XX. Era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini. Andava anche su e giù per via Etnea con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri. In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia. D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere. Nessuno la vide più.
Pippa la Catanese (Catania XIII - XIV secolo)
Era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa per vezzo familiare detta Pippa. Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana, tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore, anche quando il bambino regio improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato gentilezza di modi, fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei, per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione.
La storia di Gammazita (Catania 1280)
Alla signoria degli Angioini in Sicilia (1270-1282) è da riferire la patetica storia della giovinetta catanese di cui la leggenda ci tramanda lo strano nome di Gammazita. Il racconto popolare relativo a questa virtuosa giovinetta catanese dice che essa preferì gettarsi in un pozzo, forse nel cortile dei Vela, verso il 1280, anziché cedere alle voglie di un soldataccio francese che la insidiava. E’ evidente il collegamento con la realtà storica, non soltanto per il riferimento alle angherie compiute dai dominatori francesi sugli oppressi siciliani, che fu una delle cause dello scoppio dei Vespri siciliani del 30 marzo 1282, ma anche per il tentativo di spiegare come macchie del sangue di Gammazita i depositi ferruginosi lasciati da una sorgente minerale, che scaturiva a Catania tra le lave di Via San Calogero, e da qualche tempo disseccate. Una vecchia poesia popolare ricorda le virtù di Gammazita; in questi versi, una virtuosa fidanzata del buon tempo antico, per tenere a bada il focoso innamorato, lo ammoniva a tenere le mani a posto, altrimenti ella, come la vergine catanese del periodo angioino, si sarebbe gettata in un pozzo, preferendo la morte al disonore.
L’elefante di Catania (1239)
A un’antica leggenda è riportata l’origine dell’elefante di Catania, che dal 1239 è il simbolo ufficiale della città. Questa leggenda racconta che quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e pericolosi furono messi in fuga da un elefante, al quale i catanesi, in segno di ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata con il nome popolare di liotru, che è una correzione dialettale del nome di Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo, che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania san Leone II il Taumaturgo, perché Elidoro, non essendo riuscito a diventare vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra. Diverse ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l’origine e il significato della statua di pietra, che oggi troneggia in Piazza Duomo, nella sistemazione datale dal Vaccarini nel 1736. Di queste ipotesi due meritano un cenno: la prima è quella dello storico Pietro Carrera da Militello (1571-1647), che nel suo libro Memorie Historiche della città di Catania,lo spiegò come simbolo di una vittoria militare riportata dai catanesi sui libici; ipotesi che ha generato il telone del teatro Bellini di Catania, perché il pittore Sciuti nel 1890, per l’inaugurazione del teatro, vi raffigurò proprio questa immaginaria vittoria dei catanesi sui libici. L’ipotesi più attendibile è però quella espressa dal geografo arabo Idrisi nel XII secolo :secondo Idrisi,l’elefante di Catania è una statua magica,costruito in epoca bizantina, proprio per tenere lontano da Catania le offese dell’Etna; questa sembra la migliore spiegazione che si possa dare sul simpatico pachiderma, cui i catanesi sono legatissimi, tanto da minacciare una sommossa popolare,quando nel 1862 si ventilò la proposta di trasferire u liotru dalla Piazza Duomo alla periferica piazza Palestro.
La leggenda di Jana di Motta (1409)
Nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno, e l’anziano conte di Mòdica, Bernardo Cabrera, avrebbe voluto prenderla in sposa, per aumentare il suo potere, dato che era già Gran Giustiziere del Regno. La regina Bianca, però, non voleva sentirne; e allora il conte la inseguì per tutto il regno; la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori, che catturò il focoso Giustiziere, e lo fece rinchiudere mel castello di Motta; dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana, che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio, e ottenuto il permesso dalla regine, Jana si travestì da paggio, e si fece assumere al servizio del conte, entrando nelle sue grazie, e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca. Il conte abboccò all’amo e una notte, fattolo travestire da contadino, la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello, sostenendolo con una corda;ma ad un certo punto,Jana mollò la corda,e il povero conte cadde dentro una grossa rete,a bella posta preparata,dove rimase tutta la notte al freddo e al mattino fu beffato dai contadini, che lo presero per un ladro, e lo derisero. Jana, riprese le sue vesti femminili, e rivelatasi chi era, lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania, dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca.
Le visite dei Borboni (Catania 1800)
Anche i re borbonici onorarono di loro visite Catania:re Ferdinando III di Sicilia venne a Catania nel 186,e visitando le fabbriche di seta, allora numerose a Catania, si dice che abbia denominato la città la mia diletta Londra; re Ferdinando II delle Due Sicilie, vi venne tre volte, nel novembre del 1838, nel dicembre del 1841 e nell’ottobre 1852, e spesse volte lasciò ricordo del suo animo volgare e impetuoso, che facilmente trascendeva a vie di fatto, perché nel 1838 prese a pugni gli impiegati governativi che per servilismo volevano staccare i cavalli dalla carrozza reale, per trascinarla loro stessi, e ruppe con un pugno gli occhiali a un certo Maravigna; nel 1841, mentre il re saliva lo scalone del grandioso convento dei Benedettini, un consigliere comunale catanese, certo Anzalone, mise malaccortamente il piede su uno degli speroni del re, e glielo ruppe, e alle sue scuse re Ferdinando rispose con un violento schiaffo, onde i catanesi, sempre motteggiatori, composero questo rapido epigramma: "Anzalon/al re ruppe lo spron,/il re di botto/gli diè un cazzotto :/pari all’angla Giarrettiera/dei cazzotti ciascun l’ordine spera".
Catania - Il terremoto del 1693
A questo terribile cataclisma sono legate due leggende catanesi quella di "Don Arcaloro" e quella del vescovo Carafa. La prima di queste due leggende narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale, e con la sua vociaccia gridò a Don Arcaloro di affacciarsi subito, perché gli doveva dire una cosa di grande importanza: ne andava di mezzo la vita! Don Arcolaro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire. La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte gli era apparsa in sogno S.Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua amata città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi, aveva rifiutato di concedere la grazia; ed aggiunse la terribile profezia "Don Arcaloru, Don Arcaloru, /dumani, a vintin’ura, /a Catania s’abballa senza sonu!", e cioè "Don Arcaloro, don Arcaloro, domani, alle 14, a Catania si ballerà senza musica!". Il Barone capì subito di quale ballo la vecchia parlasse; e si rifugiò in aperta campagna, dove attese l’ora fatale: e puntualmente all’ora indicata dalla strega il terremoto si verificò. Un vecchio quadro settecentesco, riprodotto da Salvatore Lo Presti, rappresenta il barone catanese con l’orologio in mano, in attesa della funesta ora.
La seconda leggenda relativa al terremoto del 1693 è quella che riguarda il vescovo di Catania Francesco Carafa, che fu a capo della diocesi dal 1687 al 1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua cara città il terribile terremoto. Ma nel 1692 egli morì, e l’anno dopo, venute meno le sue preghiere Catania fu distrutta. Nell’iscrizione posta sul suo sepolcro, che si trova nel Duomo di Catania, si legge infatti: "Don Francesco Carafa, già Arcivescovo di Lanciano poi Vescovo di Catania, vigilantissimo, pio, sapiente, umilissimo, padre dei poveri, pastore così amante delle sue pecorelle, che poté allontanare da Catania due sventure da parte dell’Etna, prima del terremoto del 1693. Dopo di che morì. Giace in questo luogo. Fosse vissuto ancora, così non sarebbe caduta Catania!".
Catania - Il terremoto del 1818
I segni premonitori del sisma furono un nubifragio che allagò la parte occidentale della città, le acque dei pozzi che "apparvero torbide e puzzolenti" (dal 17 al 20 febbraio), un leggero movimento tellurico (il 18), una violenta mareggiata che si abbatte sulla costa la mattina del 20 e, nelle prime ore del pomeriggio di quel giorno, un rombo sotterraneo. Poi improvvisamente, alle 19.25, "gagliardissimo tremuoto scosse Catania e tutta la regione dell’Etna, ove atterrò e sconquassò le città e i villaggi dell’esteso territorio". Le scosse furono due; l’epicentro fu localizzato ad Aci Catena e in quella zona e nei centri vicini si ebbero i danni più gravi, decine di morti, centinaia di feriti. A Catania immenso fu il panico, tutta la città piombo nel buio, chiese e palazzi in parte crollarono; fortunatamente non vi furono però morti. Un viaggiatore francese, lo scrittore Louis Simond, giunto a cavallo all’indomani del terremoto, lasciò questa testimonianza: "Entrando a Catania, per una bellissima porta (oggi porta Garibaldi, allora Ferdinandea), fummo colpiti di tristi effetti dell’ultimo terremoto. La metà della case erano puntellate, e innumerevoli pezzi di legno, appoggiati contro i muri,ostruivano le strade affollate. Gli abitanti, interamente rinvenuti dalla paura che avevano avuto di recente, si fermavano per vederci passare, come se non fossero stati essi stessi dei soggetti molto più strani". A Zafferana etnea 29 persone perirono sotto le macerie della chiesa madre mentre seguivano gli esercizi spirituali in preparazione alla Pasqua. Altre quattro morirono nelle loro case distrutte dal "sgagliardissimo" terremoto.
Il carcere vecchio (Catania 1825)
Prima che si costruisse il carcere tra le vie di San Giuliano e Ventimiglia e la Piazza Pietro Lupo, era utilizzato per custodire i detenuti il Castello Ursino; fu anche adibita a tale uso la vecchia casa del marchese di Raddusa, in piazza Duomo. La costruzione del carcere avvenne nel 1825; l’inaugurazione avvenne nel 1831. L’edificio, progettato dall’ing. Mario Musumeci, ubicato nella prosecuzione della via dei Quattro Cantoni (l’odierna via Antonio di San Giuliano), è un fabbricato massiccio a pianta quadrata e due elevazioni; dotato di 125 finestre, poteva ospitare 600 detenuti. Conserva tutt’oggi intatta la sua struttura originaria. Rimase carcere giudiziario per oltre un secolo. Dopo la cacciata dei Borboni, nella cella n.9 fu trovata questa frase, tracciata col sangue su una parete: "Mai ci siamo sentiti tanto liberi come ora che siamo in carcere per la libertà della Patria". Intorno al 1935, con il completamento della costruzione del nuovo carcere in fondo alla Via Ipogeo, quello di via di San Giuliano perdette, a causa degli ultimi eventi bellici, la sua primitiva funzione. L’edificio ha subito nel tempo lievi modifiche interne. Conserva nel resto le antiche strutture, persino le grate alle finestre. Sul timpano c’è un orologio; una lapide ricorda che l’edificio fu costruito con pubblico denaro sotto il regno di Francesco I di Borbone. E’ anche rimasta intatta la cappella alla quale si accede dall’ampio cortile interno.
Porta Uzeda (Catania 1695)
Chiude, come una quinta di alto valore scenografico, la Via Etnea a sud, nel tratto in cui, superata la piazza Duomo, la strada maestra di Catania si insinua, per concludersi in via Dusmet, tra l’ex palazzo dei Chierici a ovest e l’ala di levante dello stesso seminario. Fu appunto per unire questi due corpi di fabbrica che nel 1695, per volere del Duca di Camastra, don Giuseppe Lanza, venne costruito un cavalcavia che diede origine ad una porta che allora fu detta della Marina. Ma cambiò nome in quello stesso anno in omaggio al viceré don Francesco Pacco, duca di Uzeda, venuto a Catania per rendersi conto dei lavori di ricostruzione della città sulle macerie del terremoto del 1693. Sopra quell’arco, negli anni che seguirono, a iniziativa del vescovo mons.Salvatore Ventimiglia, vennero costruiti i piani superiori, collegati anch’essi con le due ali del palazzo, e in alto fu eretto un sontuoso fastigio con una nicchia centrale che racchiude un busto di S.Agata che guarda la città e un’iscrizione marmorea: "D.O.M.Sapientiae et bonis artibus-1780" (A Dio ottimo massimo, alla sapienza e alle sue belle arti). Sul balcone che si apre proprio sulla porta dalla parte di Via Etnea c’è un grande stemma del vescovo.
La prima stampa (Catania 1471)
Nel 1471,sedici anni dopo che Gutenberg aveva stampato la Bibbia a caratteri mobili, arrivò da Roma a Catania il tipografo tedesco Enrico Aldig, con maestranze e macchinari,attratto dal miraggio di mettersi a stampare le leggi municipali. Ma gli archivi municipali catanesi funzionavano male, lavoro non c’è n’era e perciò Aldig tornò a Roma e, sette anni dopo stampò (1478) la Vita di S.Gerolamo: il 1471 avrebbe potuto essere l’anno della prima opera a stampa catanese, ma non fu così. Il primo stampatore catanese fu così un altro, novant’anni dopo. Il libro più antico stampato a Catania, conservato nella biblioteca universitaria, è il De Successione feudalium repetitio, scritto da un giurista e uomo di lettere catanese, Giuseppe Cumia e da lui stesso pubblicato nel 1563 nella tipografia che aveva appositamente impiantata in casa propria nel novembre dell’anno prima. Nello stesso anno (20 aprile 1563), e nella stessa sua stamperia, un volumetto di versi: Rime - di Giuseppe Cumia - Dottor dell’una et l’altra Legge - Siciliano di Catania. Dopo il Cumia si deve arrivare al 1623 per rivedere i torchi a Catania, quando Giovanna d’Austria vendette, a Militello, per 110 onze, le attrezzature tipografiche del marito defunto a Giovanni Rossi e al Petronio associati, i quali si impiantarono nella nostra città.
Villa Scabrosa (Catania 1669)
Nel 1669 parte di Catania fu sommersa dalla lava durante la terribile eruzione dell’Etna. Tutta la zona che dal castello Ursino arrivava fino alla vecchia via della Concordia risultò poi costellata di "terrazze laviche" sensibilmente più elevate rispetto al piano della "vaddazza". Una di queste terrazze aveva una vasta conca presso la quale scorreva una grossa vena d’acqua che si perdeva fra le sabbie della non lontana spiaggia: Il principe Ignazio di Biscari, ottenne dalle autorità demaniali il permesso di costruirvi un giardino di tipo architettonico, ma durante la realizzazione cambiò idea. Ordinò che il rustico della villetta venisse lasciato allo stato iniziale, fece piantare quanti più alberi poté, fece deviare il vicino corso d’acqua riempiendo la conca e creando un pittoresco laghetto. Nacque così la Villa Scabrosa, luogo solitario e romantico che fu il ritrovo della nobiltà catanese e della gioventù dorata cittadina. La Villa Scabrosa dovette rappresentare in quell’epoca un oasi di verde e di felicità in un deserto di sciare grigie e tetre, ma per i catanesi rappresento quasi un simbolo della tenacia e della volontà di restituire alla vita la loro città così duramente colpita dalla furia del vulcano. Non per nulla le autorità cittadine vollero che l’unica stampa che riproduceva questo gioiello fosse esposta alla "Mostra del giardino italiano" che nell’aprile del 1931 fu tenuta a Firenze, assieme ad alcune visioni della Villa dei Paternò Castello principi di Biscari, quella stessa che doveva poi diventare l’attuale Giardino Bellini.
Torre Alessi (Catania 1800)
Sul finire dell’800 una vasta area a nord-ovest del giardino Bellini, compresa fra il viale Regina Margherita e la Via Cesare Beccarla, era occupata da un grande agrumeto appartenete alla famiglia Alessi. Scarseggiava però l’acqua per irrigare, sicché i proprietari decisero di far costruire una grande vasca di raccolta (una gebia): volevano una costruzione che non apparisse troppo rustica e che anzi propendesse a qualche eleganza, sicché affidarono l’opera all’architetto Carlo Sada, che nel penultimo decennio del 900 era impegnato nella costruzione del Teatro Massimo Bellini. Per rifornire la gebia occorreva anche una di quelle così dette guglie per regolare l’aflusso dell’acqua. Sada, così a poi raccontato la figlia Teresa, decise di mascherarla all’interno di una svettante torre quadrangolare alta 35 metri e avente in cima una terrazza da cui ammirare il panorama: Era rastremata e fasciata tutta intorno da una scala a spirale munita di ringhiere e culminava con una cupola di ferro. Tutta la costruzione era ispirata a un vago stile orientale. Dopo la seconda guerra mondiale, quel vasto agrumeto andò progressivamente scomparendo per lasciare posto a un nuovo quartiere residenziale, finchè non giunse anche l’ora della torre, che ahimè fu abbattuta dai nuovi proprietari.
Lago di Nicito (Catania 496 A.C.)
In seguito all’eruzione dell’Etna del 496 a.C., il corso del fiume Amenano fu colpito dalla lava nelle vicinanze dell’attuale S.Maria Di Gesù e, di conseguenza si formò uno specchio d’acqua della profondità di circa 15 metri e dalla circonferenza di 6 Km. Era uno dei luoghi più belli e incantevoli di cui Catania poté vantarsi fino al 600. Era circondato da piccole colline e sulle sue rive sorgevano ville incantevoli, ritrovo della società brillante catanese. Fu chiamato lago di Anicito (detto poi Nicito) il cui nome deriva, probabilmente, dall’aggettivo greco aniketos (invitto), che viene a sua volta da Nike (vittoria). Il lago era così grande che l’8 settembre 1652, ricorrendo la festa della Madonna fu teatro di una imponente regata navale. Il lago fu completamente distrutto e scomparve in seguito alla terribile eruzione dell’Etna del 1669. Dopo aver distrutto numerosi centri etnei, il torrente di lava si diresse su Catania e il 15 aprile, invasa la campagna a nord-est della città e la valle di Anicito, si riversò nel lago stesso, colmandolo in sei ore. L’unico ricordo che del lago oggi rimane è il toponimo che fu assegnato negli anni venti alla strada che collega la via Plebiscito a piazza S.M.Di Gesù.
Le vecchie campane di Catania
Sono 14, fra le molte centinaia di tutte le chiese della città, le più antiche campane di Catania. Le altre sono state costruite nel 800 e nel 900. In cattedrale: la campana del popolo perché serviva a dare l’annunzio delle esecuzioni capitali; il campanone, uno dei più grandi di tutta la Sicilia e del mondo, alto 2 metri e 20 centimetri e con una circonferenza alla base di 5 metri e 90 centimetri, scaraventato in mare dal terremoto del 1693 e poi rifuso anche con oro e argento donato dai cittadini (1514); campana dell’orologio (1527). Nella chiesa di S.Agostino: a più grande (1505) e la più piccola (1514) delle tre campane. Nel Santuario della Madonna del Carmelo: 1525. Nella chiesa di san Francesco di Paola: la campana maggiore del 1600. Nella chiesa di san Domenico:1625. Nella chiesa di S.Nicolo l’Arena: la seconda, per grandezza, delle cinque campane reca la data del 1683 mentre la maggiore, restaurata negli anni 50, dopo circa un secolo di silenzio, quella del 1708. Nella chiesa di san Giuseppe al Duomo: la maggiore delle campane è del 1753. Nella chiesa di san Agata al borgo: 175. Nella chiesa di santa Maria dell’Aiuto:la campana grande è del 1768.
Acatapani (Catania 1700)
Si chiamavano così, nel 700, i vigili sanitari che avevano il compito di far rispettare l’ordinamento annonario dei numerosi mercati della città, dove regnava il disordine. In tali mercati si vendevano le merci più disparate, dal pane alle candele di sego, al caciocavallo ai maccheroni, al sale, allaquagliata. Il servizio di vigilanza annonaria vietava fra l’altroconfusione, affollamento, di metter mano ai canestri, cofani od altro, ove son posti i pesci e di presceglierne i migliori. Ai contravventori si infliggevano pene, come quella di due tratti di corda agni ignobili o di un anno di carcere alle persone civili, la qualcosa dimostra che, nonostante tutto, era preferibile,a quei tempi,essere plebeo e non aristocratico. Gli acatapani erano evidentemente consapevoli dell’importanza della loro funzione, ant’è vero che, nel 1779, pretesero di partecipare alla cavalcata che si faceva ogni anno durante la festa di san Agata. Il Senato cittadino si oppose a questa richiesta: gli acatapani presentarono allora ricorso al re Ferdinando IV, ma il sovrano approvò la decisione del Senato.
Alcorano (Catania 1813)
Così fu comunemente inteso dai catanesi ,fino al 1813, il Libro Rosso (dalla fodera color fiamma), depositato presso la Loggia (palazzo comunale), nel quale erano elencati i nomi e i rispettivi privilegi spettanti alle famiglie che,per grado di nobiltà, componevano la Mastra Nobile (altrimenti detta Mastra Serrata per la ristretta e non ampliabile cerchia dei suoi componenti). Da essa si sceglievano i detentori del governo della città; nessuna altro cittadino poteva accedere alle cariche pubbliche. Sicché a parte ogni merito e virtù,per parecchi secoli Catania fu retta e amministrata esclusivamente da 200 persone appartenenti a una quarantina di famiglie. L’appellativo deriva dall’accostamento di quella sorta di sacro registro al Corano dei musulmani contenete la dottrina di Maometto. Nella lingua araba,infatti, al vale epiteto di difetto o qualità. Nella fattispecie l’epiteto, evidentemente, era spregiativo.
Il fucile a doppio uso (Acireale)
Una leggenda d’Acireale attribuisce al barone don Arcolaro Scamacca l’invenzione di uno speciale fucile, da cui partivano contemporaneamente due colpi: uno verso il bersaglio, e l’altro verso colui che tirava il grilletto. Si afferma che egli si sia servito di questo specialissimo fucile, per eliminare non soltanto i suoi avversari,ma anche i sicari, cui affidava le sue vendette. Ma bisogna riconoscere che anche i suoi scherani non dovessero brillare d’intelligenza, se usavano questo "fucile a doppio uso" senza prevederne gli effetti.
Pietra del Malconsiglio (Catania 1516)
E’ legata al ricordo di un periodo drammatico della storia siciliana, quando dopo la morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516), il viceré Ugo Moncada si rifiutò di lasciare l’alta carica e, sostenuto da un gruppo di esponenti della più alta nobiltà dell’isola, scatenò una sanguinosissima guerra civile che prese le mosse da Palermo e che funestò la Sicilia, con conflitti, congiure e vendette, per tre lunghi e tormentati anni. A Catania, dove contavano molti seguaci, i nobili ribelli e i loro fautori "scelsero per le loro riunioni segrete un giardino nel piano dei Trascini, nei pressi di due antichi avanzi: un capitello dorico in pietra lavica e un grosso pezzo di architrave, pure in pietra lavica, provenienti probabilmente da uno dei grandiosi templi di cui era ricca Catania nell’antichità". La lotta divampò feroce, finche i fautori del Moncada non ebbero la peggio. Il nuovo viceré, Ettore Pignatelli, riuscì a stroncare le ribellioni, colpendo i responsabili con mano pesante: molti ribelli finirono sulla forca, altri furono cacciati in esilio, i loro beni confiscati e "le loro case atterrate". Il Senato della città a memoria, e monito di questi avvenimenti, fece rimuovere i due antichi avanzi lavici: il capitello, che da allora si chiama "Pietra del malconsiglio" venne innalzato nel piano della Fiera (oggi Piazza Università) mentre il pezzo di architrave fu sistemato all’ingresso del palazzo della Loggia e su di esso i debitori insolventi erano fustigati con apposite verghe. Dopo il terremoto del 1693 della "pietra del malconsiglio" e dell’architrave nessuno più si ricordò. La prima nel 1872 fu rimossa e posta in un cantuccio della corte del Palazzo Carcaci ai Quattro canti, e li è rimasta. Il secondo pezzo invece si trova nel cortiletto posteriore del teatro Massimo Bellini.
Il furto alla Chiesa di S. Nicolò l’Arena (Catania 1697)
Dal tabernacolo del tempio, alla fine del 1697, fu trafugata la pisside con le ostie consacrate. Il colpevole fu smascherato alcuni giorni dopo:era un servo dell’annesso convento dei benedettini:si chiamava Gaetano Cugno ed era messinese. Fu catturato ad Acireale e ricondotto a Catania e solo allora rivelò dove aveva nascosto le ostie: le aveva avvolte in un pezzo di carta e deposte accanto a un muretto nel giardino dello stesso convento. La pisside invece, ridotta in minutissimi pezzi, l’aveva addosso in un sacchetto. Qualche settimana dopo il ladro sacrilego saliva al patibolo. Nel luogo del ritrovamento fu innalzata un’icona, sostituita nel 1800 da una lapide che è murata nel cortile del palazzo e tradotta vuol dire a Dio Ottimo Massimo, regnando in Sicilia Carlo II di Spagna, presso il muretto di questo giardino furono ritrovate, ammucchiate, ricoperte di pietre e avvolte in carta, le particole del Santissimo Corpo di Cristo che uno scelleratissimo Gaetano Cugno con furto sacrilego aveva asportato…. L’epigrafe ricorda anche che i monaci donarono l’olio affinché in quel luogo ardesse sempre una lampada.
Aspanu (Catania 1800)
Era un venditore di ciambelline (‘nciminati). Alla fine dell’800 e nei primi anni del 900 si aggirava al giardino Bellini col suo cestello, colmo di quei dolcetti, sospeso al collo con una cinghia e poggiato al ventre rotondettoecon una suadente cantilena esortava i bambini a piangere per ottenere dal papà i croccanti geminati col sesamo.Era un personaggio caratteristicoche non potremmo dire né giovane né vecchio: aveva passato, dicono, i 45 anni, ma aveva tutto l’aspetto di un ragazzo con la sua faccia rotonda e completamente priva di barba e dalla pelle liscia e per nulla afflosciata dall’età. Basso di statura e panciuto, era notissimo in tutta la città ma nessuno seppe mai qualcosa della sua vita privata, neanche il suo cognome. Poi, questo metèco venuto non si sa da dove scomparve dalla circolazione: ormai carico di anni, anche se aveva sempre la faccia di un fanciullo, si rintanò all’albergo dei vecchi. E li morì.